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Il mio concetto di danza, da incompetente in materia quale sono, è stato spesso legato agli stereotipi sull’argomento: fanno danza le ballerine in tutù sulle punte dei piedi come Carla Fracci, fanno danza le bambine alle elementari – mentre i maschietti li portano sempre a calcio o a karate – fanno danza moderna, contemporanea, sperimentale tutto un’insieme di ragazze più grandi che attingono da generi musicali dei giorni nostri per creare balletti, coreografie, pattern visivi che uniscano ginnastica a movimenti coordinati e armoniosi. Poi ci sono anche gli ometti: i vari Nureyev, Paganini, Bolle, che in qualche modo sono diventati delle star e travalicano i confini del mondo della danza per assurgere ad icone dello spettacolo, volti noti sulla cui produzione a fatica potrei parlare per oltre quattro o cinque secondi.
Si può capire la danza avendo frequentato teatri sempre e solo per spettacoli di prosa e di musica, tuttalpiù per qualche conferenza? Me lo sono chiesto soltanto a trent’anni come spesso fanno le persone che dicono di no a prescindere: non m’interessa, non mi piace, non fa per me. L’ha fatto anche mia mamma per anni con il sushi e gli aerei, ed ora che ha provato entrambi continua a mangiare cibo italiano ma fa le vacanze in mete più lontane, avendo scoperto che volare può essere economico e divertente.
Svuotando la mente da ogni preconcetto sono andato ieri sera al Teatro Comunale di Ferrara per assistere allo spettacolo di Louise Lecavalier. La ballerina canadese è tipo un mostro sacro della danza, con un curriculum alle spalle che non ha bisogno di presentazioni. Sono felice di poter assistere ad uno spettacolo di qualità per fare il mio esordio con il botto nel mondo della danza, pensavo entrando a passo spedito nel foyer del teatro.
La scena completamente spoglia e priva di luci è illuminata solo da una luce stroboscopica che cadenzata da battiti sintetici e una sirena acuta in sottofondo segna l’ingresso di Louise. E’ magrissima, i capelli biondi tagliati corti e lasciati a ciuffi disordinati, un abbigliamento essenziale, oscuro come questa primo brano che presenta. Le ballerine, ancora a mezz’età sfoggiano sempre un fisico invidiabile dovuto al ferreo allenamento e la Lecavalier ha 55 anni ma ne dimostra venti di meno. Children del coreografo Nigel Charnock è un’interpretazione di una relazione sofferta, drammatica e coinvolgente tra uomo e donna, sempre sul filo della rottura eppure che nonostante tutto riesce a sopravvivere. Sulla scena all’inizio Louise è sola e le figure che propone sono basate essenzialmente sulla sua fisicità e su movimenti rapidi a volte con l’uso di una sbarra.
E’ passato appena un minuto quando questa cade per un attimo di mano in un passaggio. Sarà voluto o è un errore? penso, mentre la ragazza alle mie spalle chiede la stessa cosa bisbigliando al padre, ma non odo la risposta. La solita curiosità del principiante, la solita fortuna di chi sta sul palcoscenico e ti lascia con il dubbio se il fuoriprogramma fosse effettivamente tale.
Foto di Massimo-Chiaradia e André Cornellier – Courtesy Teatro Comunale di Ferrara
Poi entra Patrick Lamothe, il ballerino che dal 2009 ha portato questo spettacolo in giro per il mondo con la Lecavalier. A passi incerti avanza verso Louise, e da quel momento è un intenso intreccio di corpi che si cercano e al contempo si respingono, coinvolgendo lo spettatore sulle note di alcuni celebri brani. Lamothe è un omaccione alto e un filo corpulento, vestito di una canotta bianca, ai miei occhi poco esperti sembra perfino inadatto al ballo e si muove con meno grazia della sua compagna, ma è un perfetto partner nella coreografia forse anche per le sue fattezze rudi in quello che di fatto è un balletto certamente non convenzionale. Quando si unisce a Louise sulle note struggenti di Dance me to the end of love di Leonard Cohen sono commosso dalla bellezza dell’accostamento e mi trovo a pensare a tante cose, alla poesia di un momento, alla sensualità di due corpi che si muovono armoniosamente sul palco, all’alchimia che si crea nell’atto liberatorio del ballo. Mi vedo i due ballerini sul palco a provare queste mosse in una palestra, a casa, in una stanza modesta e spoglia, me li vedo valutare i diversi brani con complicità cercando quelli giusti per rappresentare al meglio la vicenda. Brani che nello spettacolo spaziano dal rock potente di Janis Joplin alla struggente magia della Callas nell’aria Vissi d’arte della Tosca, passando per Billie Holiday, il blues cadenzato di Sonny Terry, in momenti tra il buffo e il drammatico.
Voci di bambini in sottofondo gridano, piangono, ridono mentre a colpi di ballo la relazione tra i due si sviluppa, si logora e poi si riprende. Compaiono cuscini da lanciarsi, bottiglie in plastica dappertutto sul palcoscenico da mettere in ordine mentre l’altro ne rompe l’equilibrio, un amore/odio continuo tra dissenso e affetto che culmina in un abbraccio liberatorio e poi ancora in una danza frenetica dove ogni suono è assente e soltanto i respiri fanno da padrone in un momento pieno di passione. Quando anche le luci calano fino ad un unico punto centrale i due non possono che ricongiungersi e sotto scrosci d’acqua di bottiglia cadere a terra quasi annegati. Lei sembra morta, viene scossa e mossa violentemente fino al risveglio e all’abbraccio finale che segna il lieto fine.
Qual è la storia di una coreografia, cosa avrà voluto dire l’autore? La ragazza alle mie spalle è confusa quando si accendono le luci in sala prima del secondo balletto proposto, A few minutes of Lock, dove la Lecavalier interpreta invece figure e coreografie di Èdouard Lock, certamente più classiche e che mettono in luce tutto il suo virtuosismo. Come finisce la vicenda? Che tipo di relazione c’era tra i due? Si amano o si odiano? Perché?
Tentando di analizzare con i canoni consueti un balletto di danza si finisce per rimanere con mille interrogativi.
Allora ho capito che la danza non è narrativa, non racconta per forza di cose una storia, ma è suggestione, sentimento, armonia. Ho capito che per immergersi nello spettacolo servono occhi fanciulleschi e ci si deve lasciare trasportare dalle emozioni, dalle libere associazioni che si creano vedendo una ballerina che fa una piroetta, una coreografia di luci e suoni, un passo particolarmente complicato. Ho capito che la bellezza del ballo è nel ballare e che la gioia, il dolore, la passione che l’artista esprime sul palco è prima di tutto per se stesso, un nutrimento di cui ha bisogno per esprimersi, un bisogno primario. Saperne cogliere i tratti non è facile e in questo esistono attori, musicisti, ballerini più o meno bravi, ma quando si riesce ed entrare in empatia, a lasciarsi trasportare dall’istante per viaggiare con il pensiero secondo la propria esperienza è un po’ come sognare ad occhi aperti, è un po’ come riuscire a cogliere il bello in quello che gli occhi vedono per provare ad interpretarlo grazie al nostro vissuto. In questo la danza non è diversa da un bel quadro o una bella canzone. E’ qualcosa capace di suscitare delle emozioni e travolgerti usando un linguaggio, quello del corpo in questo caso, capace di inaspettati miracoli.
Esco da teatro soddisfatto: non tutti i passaggi mi sono piaciuti, non tutto forse l’ho capito, e non ho potuto valutare la tecnica come forse un vero critico potrebbe fare. L’esperimento però ha funzionato. Non è nemmeno più questione di non interessarsi alla danza relegandola a passatempo prettamente femminile o ad argomento per addetti ai lavori. Assistere ad uno spettacolo di questo tipo rientra appieno nel bisogno di bello che l’uomo cerca da sempre in una fotografia, una scultura, un dipinto, una sequenza di note ed anche un movimento di passi. E’ qualcosa alla portata di tutti, ognuno secondo il suo sentire, basta solo lasciarsi trasportare. Sospendete i giudizi e lasciatevi sorprendere, con la curiosità di vedere qualcosa di unico e nuovo scoprirete che la danza può parlare anche a voi.
Domenica 3 novembre, Louise Lecavalier è di scena nuovamente al Teatro Comunale di Ferrara con So blue. Informazioni qui: http://www.teatrocomunaleferrara.it/navigations/view/1/2/2192/Ritratto-d-artista-n-2-Louise-Lecavalier.html